La Chiesa e il Monastero

di Marcello Gaballo

Il protomonastero delle clarisse, l’unico ancora attivo in città, secondo i riferimenti della storiografia locale fu fondato nel 1278, venticinque anni dopo la morte della Santa, su richiesta dei francescani già insediati.  L’effettiva data di fondazione resta ignota, comunque gli studi più recenti rimandano al secolo successivo e probabilmente sotto l’angioino re Roberto.

Dall’origine ad oltre la metà del secolo XVI si conosce ben poco della struttura, che sorgeva a ridosso della seconda cinta muraria realizzata dal duca Belisario Acquaviva d’Aragona (1464-1528). Non è improbabile che il monastero primitivo fosse in altro luogo, forse nelle immediate vicinanze dell’ospedale di S. Antonio della Pietà, di patronato e cura delle monache fino al XV secolo. Sono invece parzialmente note le vicende economiche e l’oculata amministrazione del patrimonio, grazie alle oltre cento pergamene che il monastero ha serbato per molti secoli nel proprio archivio e particolarmente divulgate dalla Frascadore.

All’inizio votate alla povertà, per la primitiva Osservanza della regola del 1263, le sorelle povere poi ebbero il permesso di avere beni stabili con la seconda regola di Urbano IV. Per questa riforma il monastero si trovò a possedere diversi feudi nel territorio neritino (Agnano, Cenate Vecchie, Feudo Spezzato ed Uggiarica), più di qualunque potente barone, ma specialmente numerose masserie, dalle quali traeva grandi introiti ed enormi rendite derivanti dal commercio dei prodotti, dalle decime e dall’affitto dei terreni.

La loro presenza costituì per le sue implicazioni religiose e sociali un fatto di indubbio rilievo all’interno delle vicende della città nel corso dei secoli, ma specialmente nell’età della Controriforma. Non meno importanti erano gli introiti derivanti dalla cospicua dote della monacazione di nobili fanciulle desiderose, se non obbligate, di dedicare la propria vita alla preghiera ed alla meditazione. Per molti secoli infatti il monastero ospitò tra le sue mura  le più illustri tra le famiglie titolate del Salento, tra cui molte congiunte con i duchi di Nardò Acquaviva d’Aragona e la più nota Chiara d’Amato dei duchi di Seclì (1618-1693), morta in concetto di santità.

Il monastero, sotto la direzione spirituale dei francescani conventuali prima e minori dopo, fu sempre punto di riferimento delle più potenti famiglie cittadine, che annualmente designavano il procurator, l’intermediario, scelto tra i particulares cives della città.

Grazie anche alle sovvenzioni private e agli appoggi dell’universitas, all’onore si aggiunse il prestigio e non mancarono anche le comodità, tanto che le suore furono richiamate alle severe regole della clausura, che vige ininterrotta sin dal 1576. Ben tre chiavi serravano all’interno le monache, e di esse una era di certo conservata dal municipio, l’altra dal vescovo, la terza, probabilmente, dai frati.

Nel corso dei suoi almeno sette secoli di vita il monastero ha subito a più riprese modifiche ed ampliamenti, specie tra il XVI e XVIII, con un importante e sostanziale intervento sotto l’episcopato dei vescovi Bovio e Fornari, ad opera dell’emergente Giovan Maria Tarantino, di Giovan Tommaso Riccio e Scipione de Cupertinis, magistri lapidarii di Nardò tra i più significativi del tardo Cinquecento salentino, che nel 1585 stipulavano apposita convenzione con le clarisse super fabricatione facienda in dicto monasterio.

Il cantiere dovette restare aperto per oltre un decennio, perché si registrano atti notarili tra 1589 e 1599, in cui vengono effettuati lavori per la ristorazione del monistero ed acquisite abitazioni limitrofe incorporate fabrice nove dicti monasterii annis preteritis, tra cui anche il cortile e parte del suolo della contigua chiesa di S. Giovanni Battista, la cui confraternita nel 1613 ancora reclamava i 300 ducati dovutigli dalle monache per canne vintisei incirca di fundo et altra monizione.

A sinistra dell’ingresso una colonna angolare ricorda l’antico perimetro del monastero ed un fregio con gli stemmi della città e della confraternita testimonia l’antico accesso alla predetta chiesa.

Il gran numero di vocazioni, ben ottanta professe nel 1645, rendeva necessario un ampliamento della struttura, ma lavori in tal senso sono documentati molto dopo, dal 1691 al 1693. L’ultimo consistente intervento di completamento ebbe luogo tra 1712 e 1725, per espresso desiderio del grande vescovo napoletano Antonio Sanfelice (in carica 1707-1734). Lo spazio necessario all’ampliamento fu ottenuto attraverso l’acquisto di diciotto abitazioni poste accanto al giardino o pomario, che venne ingrandito sul lato orientale per come è tuttora visibile.

In quell’occasione Ferdinando Sanfelice (Napoli, 1675-1736), fratello del vescovo e celebre architetto, effettuò altri importanti interventi costruendo il secondo chiostro, rifacendo le celle, il refettorio e l’educandato. Stando al De Dominici vi realizzò pure l’originale scala interna, che collega il pianterreno col primo piano con una serie di rampe inserite in un vano ottagonale. 

Per quel trentennio in buona parte ricoprì il ruolo di badessa Agnese Acquaviva, figlia del marchese di Trepuzzi Diego Acquaviva, nata a Melpignano nel 1653, professa nel 1670 e deceduta nel 1748. Personalità di gran spicco e di notevole influenza, sotto il suo governo coinvolse per il definitivo aspetto di chiesa e monastero diverse personalità d’artisti, tra cui pittori, architetti, scultori, marmorari, stuccatori e scalpellini. Anche sua sorella Marianna fu clarissa in Nardò con il nome di Teresa Giovanna della Croce e per la sua professione furono ceduti in dote al monastero alcuni terreni a S. Pancrazio e la masseria Contatore, in feudo di Guagnano, del valore di 500 ducati.

La chiesa originaria non era di ampie dimensioni, con una navata voltata a botte, all’interno del monastero, con affreschi di santi e sante dell’ordine francescano di cui non resta più alcuna traccia. L’aula fu ristrutturata alcuni decenni addietro per ottenerne la “sala dell’accoglienza”, quale  luogo di riunioni e conferenze. In essa, secondo quanto celebra un’epigrafe, nel 1433 attese alla direzione spirituale delle suore san Bernardino da Siena, chiamato in città dal vescovo Giovanni Barella (1423-1434), anch’egli francescano.

Per esigenze di culto fu edificata l’attuale chiesa iniziando i lavori nel 1692 ed ultimandoli nel 1702, anno di consacrazione da parte del vescovo Orazio Fortunato (1678-1707), come ricorda l’epigrafe posta sulla controfacciata.

Le vicende costruttive si protrassero al tempo di Ferdinando Sanfelice, che fece rivestire l’altare maggiore con preziosi marmi e forse anche realizzare l’artistico pergamo in legno dorato. Certamente nel 1734 egli disegnò lo splendido paliotto d’altare, poi ricamato dal conterraneo Salvatore Mirabile, che ancora è custodito in loco. Il definitivo completamento, almeno per quanto riguarda il coronamento dell’abside, si ebbe nel 1759, come celebra un cartiglio posto sulla sommità dell’altare.

L’unico ingresso al monastero dalla pubblica via è costituito da un portale cinquecentesco in carparo. E’ delimitato da due paraste con la parte centrale convessa e bordate da robuste cornici, sulle quali s’imposta un’ampia arcata a tutto sesto, riccamente intagliata, con formelle a rosoni, fogliami e protomi vegetali, che tanto ricordano il raffinato scalpello di Giovan Maria Tarantino.

La settecentesca facciata, in bilico tra “maniera” e “barocco”, è scandita su due piani divisi da uno sporgente cornicione che si ripete all’interno della chiesa. Caratterizzata da quattro pilastri con capitelli corinzi, si conclude  in alto con un frontone semircircolare con oculo.

Il secondo piano, su cui si apre un finestrone centinato, lateralmente mostra due nicchie vuote, adorne alla base di ghirlande con fiori e frutta. Nel primo piano altre due nicchie ed un artistico portone di legno di faggio a specchiatura scolpita con fregi e fogliami.

Nel complesso appare alquanto austera, ma in buon equilibrio con la rigorosamente sobria cinta muraria di oltre dieci metri di altezza, che protegge l’insediamento quasi fosse un’opera militare.

La veduta parziale e ravvicinata del prospetto, a causa della via piuttosto piccola e dei grandi palazzi nobiliari contrapposti, probabilmente ha causato un sobrio impiego di altri particolari architettonici ed elementi decorativi, che risultano dunque ridotti al minimo.

Alquanto esuberante invece l’interno, a navata unica e pianta rettangolare, con dieci lesene in lieve aggetto dal piano del muro, coronate da capitelli di ordine corinzio. L’aula è scandita da tre arcate per parte che delimitano altrettante cappelle, poco profonde e con altrettanti altari. Un maestoso arco trionfale, sorretto da poderosi pilastri con capitelli, raccorda alla navata il presbiterio, sopraelevato di due gradini e delimitato dalla balaustra.

Il maestoso altare maggiore è rivestito di marmi policromi in alcune parti intarsiati e listati di nero, con ornati scolpiti e scorniciature di marmo bianco di Carrara, che conferiscono singolare animazione e ricercata preziosità, rinviando inevitabilmente a gusto e maestranze settecentesche di comprovata perizia tecnica.

La mensa rettangolare, con emblema sul paliotto, è sorretta da due mensoloni frontali con targhe in rilievo ed ornati floreali intarsiati in marmi policromi; ai lati poggiano due teste di angeli in marmo bianco a tutto tondo, di chiara fattura napoletana ed assai replicati nelle diverse chiese cittadine. La piccola custodia con porticina argentea è sormontata da tre putti adoranti, sempre in marmo. Non sembri azzardato il confronto con i cherubini di Domenico Antonio Vaccaro (Napoli, 1678-1745), amico e collaboratore di Antonio e Ferdinando Sanfelice e quindi probabile autore dei nostri.

Nella parete terminale, posta dietro l’altare, vi sono quattro alte colonne di Rosso di Francia, sormontate da due angeli marmorei e dalle statue delle sante Elisabetta d’Ungheria ed Agnese di Boemia, anch’esse di buona fattura e dello stesso materiale. Inevitabile il confronto con le opere pugliesi e napoletane del marmoraro Giuseppe Varriale, attivo fra 1745 e 1775, che spesso lavorò su disegni dell’architetto napoletano Gennaro Sammartino (Napoli, 1720-1793).

Interposta una scala per consentire l’accesso alle parti più alte, destinate agli ornamenti dell’altare.

Al centro domina una pregevole croce d’altare lignea, che si proietta sulla tela di S. Francesco che riceve le stimmate. Poco sopra una grata da cui le monache possono dal piano superiore guardare in chiesa e che si raccorda internamente con le altre dieci disposte sul perimetro dell’aula. Un grande medaglione con l’emblema francescano conclude il tutto, sormontato da una spettacolare corona di legno dorato, che conferisce singolare scenografia alla zona presbiterale.

Sempre qui, sul lato sinistro, è collocata una grande tela raffigurante la Sacra Famiglia, sottolineata da una cornice mistilinea in stucco con l’emblema francescano in alto. Fra gli arredi del lato destro il bellissimo organo a canne, poco grande ma adeguato all’ambiente, ed il pergamo.

Il dipinto, anch’esso di buona fattura e di autore incerto, mostra la Vergine seduta con sul grembo il Bambino, ai lati san Giuseppe, i santi Gioacchino ed Anna che porge fiori, Zaccaria ed Elisabetta col piccolo Battista. Un ovale in basso a destra reca le iniziali dipinte, di difficile lettura, e che sembrano essere “MS”.

La tela sovrasta il coro delle monache, separato dall’ambiente della chiesa e quindi dai fedeli da una grata, come per norma accadeva nelle chiese conventuali femminili. Ai lati dell’altare due porticine, su cui si impostano le colonne, riservano lo spazio per i confessori.

La balaustra è in marmo bianco, realizzata nel 1842, ed in essa si aprono due sportelli in ferro battuto.

Gli altari di destra sono dedicati, nell’ordine, a S. Antonio da Padova, all’Immacolata, a S. Chiara; quelli di sinistra a S. Francesco Saverio, al Crocifisso, a S. Raffaele Arcangelo.

Nella prima cappella del fianco destro, un tempo dedicata a S. Pietro d’Alcantara,  è esposto alla venerazione dei fedeli il dipinto su tela di S. Antonio da Padova che contempla l’apparizione del Bambino, l’unica firmata, come si legge sul dorso di uno dei libri: Petrus lucatellus.

Sull’altare della cappella intermedia vi è una interessante tela dell’Immacolata Concezione, ancora non attribuita.

La terza cappella è dedicata alla santa titolare della chiesa e l’altare è “privilegiato perpetuo”. Ricostruito nel 1844, mostra una bella tela di recente attribuita da L. Galante ad un allievo di Luca Giordano, Andrea Miglionico (Piano del Cilento, 1663-1718), concittadino del più celebre Paolo de Matteis, S. Chiara libera la città dall’assedio dei Saraceni.

La prima del fianco sinistro è dedicata a S. Francesco Saverio. Nella tela, tra le più ammirate, il santo è raffigurato in ginocchio di profilo a destra, su di un alto gradino, in atto di battezzare un gruppo di selvaggi. Trattasi di una  replica o buona copia della tela S. Francesco Saverio battezza gli indiani di Luca Giordano (Napoli, 1634-1705), conservata nella chiesa del Gesù Nuovo a Napoli.

Particolarmente interessante anche il dipinto del Crocifisso e dolenti del secondo altare, pure questo di recente attribuito da Galante ad un allievo del Solimena, il martinese Leonardo Antonio Olivieri (Martina Franca, 1689-Napoli, 1752). L’eloquente e severo dipinto è caratterizzato da un notturno totale dal quale emergono i protagonisti, Cristo, S. Giovanni Evangelista, la Vergine e la Maddalena, chinata ai piedi della croce, disposti secondo uno schema alquanto comune nella pittura barocca.

Insolitamente, gli altari adottano una formula analoga al controlaterale, risultando di tre tipi ed epoche differenti. I primi due con colonne tortili, con esuberanti decori, uccelli, putti e festoni di fiori e frutta, sono senz’altro di più raffinato intaglio e potrebbero farsi risalire al miglior periodo dell’arte neritina della fine del XVI secolo. Quello di destra ospita le statue di S. Ludovico di Tolosa e S. Bonaventura; quello di sinistra S. Filippo Neri e S. Francesco di Sales.

Anche le cappelle intermedie sono quasi completamente occupate dall’altare, sempre in pietra leccese e con colonne tortili, ma gli ornamenti sono meno eleganti, forse abbruttiti dalla pesante doratura, e possono ritenersi della fine del secolo successivo o inizi del XVIII. Quello di sinistra ospita le statue di due centurioni romani, di cui uno identificato come S. Longino. Sul frontone una statua dell’Addolorata, centrale, ed ai lati festoni cui sono accostati angeli con i simboli cristiani della passione: quello con la colonna, con il calice, con la scala, con il sudario. Nella parte inferiore scene bibliche della Genesi e sul pavimento due leoni reggiscudo ed la solita urna, anche questa simile alla contrapposta. 

Le più recenti sono le ultime cappelle. Quella di sinistra, posta in prossimità della porta di accesso al cortile, è dedicata a S. Raffaele Arcangelo e fu consacrata dal vescovo Salvatore Lettieri, che l’aveva fatta rimodernare a sue spese “per sua speciale divozione ed a vantaggio spirituale della popolazione di Nardò”.

All’ultimazione dei lavori l’altare risultava “ben lavorato con vari freggi e colori e con portella nella custodia di argento indorato, dai gradini fino alla sommità del concavo dell’arco… dedicato e da lui consegnato nel dì 21 novembre 1838 al gloriosissimo San Raffaele, colla propria effigie in quadro in tela, nonché colla propria statua di legno completa coll’immagine di Tobia e con tutti gli altri finimenti…”. Sulle paraste dell’altare si ripete lo stemma del vescovo.

Meritano infine particolare attenzione anche i soffitti della navata, su cui è adesa la settecentesca tela dell’Assunzione della Vergine con S. Francesco, S. Chiara, S. Rosa da Lima (?), S. Elisabetta e S. Agnese, e quello del presbiterio con altra tela coeva ma di meno facile individuazione, anche a causa del mediocre stato di conservazione.

Molto originale la piccola sagrestia, di impianto rettangolare, coperta da una volta lunettata impostata su dodici peducci, che senz’altro richiama quella cinquecentesca dell’Incoronata.

Racchiuso in una cornice architettonica di non poco conto nel contesto urbano, è evidente l’impossibilità di formulare un’immagine unitaria per il variegato complesso, dove linguaggi, stili e interessi diversi sono variati e si sono aggiunti nel corso dei secoli. Tuttavia, nella sua predominanza culturale settecentesca, rappresenta un interessante esempio di architettura monastica e con le nove sorelle che lo custodiscono è ancora attivo centro della religiosità neritina.